Sulla pagina dell’Archivio di Stato di Napoli ancora una notizia interessante ma “strana”. Si parla del Lanificio Sava (Napoli, Porta Capuana), fabbrica di diversi primati al tempo dei Borbone, dichiarando, però, che “non sopravvisse, dopo l’Unità, alla durissima crisi del settore tessile” e alla concorrenza delle industrie delle altre regioni italiane “per lo più abituate a produrre in regime di concorrenza”. Non è così… e un ente autorevole come l’Archivio dovrebbe approfondire gli argomenti che tratta (magari utilizzando anche le fonti che conserva). In questo caso sono ancora una volta illuminanti le ricerche del prof. Luigi De Matteo docente di storia dell’Istituto Orientale di Napoli. Il lanificio Sava non fallì per una indefinita e anonima “concorrenza” ma per precise scelte dei governi post-unitari. Quella fabbrica fino al 1860 occupava oltre 600 operai e parte di essi, in un avanzato sistema che univa aspetti sociali e produttivi, proveniva dal vicino Albergo dei Poveri (primi 6 mesi di formazione gratuita e, dopo, retribuzioni crescenti). A Sava furono concessi i locali adiacenti alla chiesa di Santa Caterina a Formello a porta Capuana e in pochi anni diventò il più importante fornitore di generi di vestiario e di panni di lana dell’amministrazione militare e civile del Regno. 150 le macchine previste, produceva 8.000 pezze di panni diversi per un valore di L. 1.600.000 all’anno. Con l’unità d’Italia avviò un lunghissimo contenzioso con il Regno d’Italia per il mancato riconoscimento dei consistenti contratti di fornitura aveva in corso con il cessato governo borbonico. I Sava chiesero vari prestiti alle banche ma il contenzioso sarebbe terminato solo dopo mezzo secolo (!) e solo con una apposita legge (12 marzo 1911, n. 1782) con la quale gli fu attribuito un parziale risarcimento mentre la fabbrica era fallita e i tanti operai erano già diventati disoccupati o emigranti. Altro che “debolezze di fronte alla concorrenza”…
“La parabola di Sava e del suo lanificio appare esemplificativa e per molti versi paradigmatica della vicenda dell’industria meridionale”. Sava pagò i costi pesanti di una politica italiana del tutto opposta a quella borbonica che aveva fatto nascere e stava facendo sviluppare le industrie meridionali: secondo la concezione cavouriana, l’industria si sarebbe affermata nei comparti cosiddetti ‘naturali’, facendo ‘darwinianamente’ piazza pulita di quelli artificiali”. Una concezione in sostanza “cinica” che non teneva affatto conto delle esigenze di un territorio e che anticipava forme di economia soprendemente simili a quelle attuali. Già alla fine dell’Ottocento nell’area del lanificio risultavano ormai solo le abitazioni della famiglia Sava e una ventina di botteghe e piccole fabbriche (tra le altre una di biscotti, un’altra di gassose e una trattoria).
Facciamo nostre le conclusioni di De Matteo:
“Oggi, il complesso che ospitava il lanificio di Santa Caterina a Formello, solo in qualche parte restaurato, conserva alcune tracce del suo passato industriale. Tra l’altro resiste ancora la scritta ‘Lanificio’ sul portale di ingresso, mentre lo stemma in muratura che la sormontava risultava perso già nel 1984. Verrà mai un tempo per la tutela della memoria storica del lavoro a Napoli e nel Mezzogiorno?”.
Gennaro De Crescenzo

FONTI. Di Luigi De Matteo v. gli studi pubblicati in Storia economica, XIV, 2011, n. 3; preziosi i suoi “Noi della meridionale Italia” e “Un’economia alle strette”; ulteriori fonti archivistiche anche nel mio “Le industrie del Regno di Napoli” (2002, ristampa 2012).