Molti sicuramente ricorderanno lo sceneggiato televisivo tratto dal libro “Cristo si è fermato a Eboli”. In quella riduzione televisiva, Mamma Rai fece dei (poco opportuni) tagli e cuci in modo tale da “indirizzare” per altri scopi ideologici e culturali il messaggio storico e politico del noto oppositore antifascista, personaggio di alta cultura ed onestà intellettuale come pochi.

In questo magistrale, ma non nuovo lavorio dei detentori della cultura italiota, tra l’altro fu accuratamente “censurato” un passo del libro dove l’autore fa un’analisi antropologica e politica di ciò che furono i briganti ed il Brigantaggio. Ciò grazie alla fortuna di averne conosciuto personalmente qualcuno di essi, durante la sua permanenza forzata ad Eboli per effetto del confino politico che il regime imponeva ai suoi oppositori più intransigenti e preparati. Considerato che a Carlo levi mancavano gli elementi archivistici e bibliografici oggi a nostra disposizione che in qualche modo lo avrebbero potuto condizionare, quanto riportato nel suo racconto appare di notevolissima importanza ed è un concreto e prezioso punto di partenza per ogni approfondimento di quello che fu definito strumentalmente “fenomeno”, ma che in realtà fu una sacrosanta reazione di autodifesa contro “l’altra civiltà” scesa con la forza della armi a togliere ad un popolo, il nostro Popolo, anche la libertà di espressione, oltre a quella politica ed economica, compromettendone, fino a soffocarle, le antichissime certezze culturali e religiose.

Levi allora non poteva sapere che i Borbone difendevano proprio quella civiltà contadina da lui individuata, quella terra tenuta da secoli dal popolo delle campagne in uso civico (enfiteusi perenne) e non in proprietà, da chi, aiutato dagli invasori piemontesi, di quella terra usurpata ne avrebbe fatto dei latifondi (capitalismo agrario). È solo per questa giustificata carenza di fonti se l’autore non riesce a trovare una motivazione materiale alla reazione brigantesca, ma solo una spiegazione antropologica, facendo comunque un’analisi più unica che rara. E a noi basta questo.

Infatti Carlo Levi è stato per noi ricercatori della verità storica uno dei primi spunti tra i più autorevoli perché, immerso in un contesto culturale ancora vivo, si è mantenuto distaccato da quelle vicende a lui sconosciute, innanzitutto perché non etnicamente coinvolto e poi perché politicamente lontano dalle due opposte posizioni storiche. Buona lettura.

Cap. Alessandro Romano

CARLO LEVI, CRISTO SI È FERMATO A EBOLI (pp. 121-125).

 

Le sole guerre che tocchino il loro cuore sono quelle che essi hanno combattuto per difendersi contro quella civiltà, contro la Storia, e gli Stati, e la Teocrazia e gli Eserciti. Sono le guerre combattute sotto i loro neri stendardi, senz’ordine militare, senz’arte e senza speranza: guerre infelici e destinate sempre ad essere perdute; feroci e disperate, e incomprensibili agli storici. 1 contadini di Gagliano non si appassionavano alla conquista dell’Abissinia, non si ricordavano più della guerra mondiale e non parlavano dei suoi morti: ma una guerra era in cima ai cuori di tutti, e su tutte le bocche, trasformata già in leggenda, in fiaba, in racconto epico, in mito: il brigantaggio. La guerra dei briganti è praticamente finita nel 1865; erano dunque passati settant’anni, e soltanto pochi vecchissimi potevano esserci stati, partecipi o testimoni, e in grado di ricordare personalmente quelle imprese. Ma tutti, vecchi e giovani, uomini e donne, ne parlavano come di cosa di ieri, con una passione presente e viva. Quando conversavo con i contadini, potevo esser certo che, qualunque fosse l’argomento del discorso, saremmo presto scivolati, in qualche modo, a parlare dei briganti. Tutto li ricorda: non c’è monte, burrone, bosco, pietra, fontana o grotta, che non sia legata a qualche loro impresa memorabile, o che non abbia servito di rifugio o di nascondiglio; non c’è luogo nascosto che non gli servisse di ritrovo; non c’è cappelletta in campagna dove non lasciassero le loro lettere minatorie e non aspettassero i riscatti. I luoghi, come la Fossa del Bersagliere, hanno preso nome da loro o dai loro fatti. Non c’è famiglia che non abbia parteggiato, allora, per i briganti o contro i briganti; che non abbia avuto qualcuno, con loro, alla macchia, che non ne abbia ospitato o nascosto, o che non abbia avuto qualche parente massacrato o qualche raccolto incendiato da loro. A quel tempo risalgono gli odi che dividono il paese, tramandati per le generazioni, e sempre attuali. Ma, salvo poche eccezioni, i contadini erano tutti dalla parte dei briganti, e, col passare del tempo, quelle gesta che avevano così vivamente colpito le loro fantasie, si sono indissolubilmente legate agli aspetti familiari del paese, sono entrate nel discorso quotidiano, con la stessa naturalezza degli animali e degli spiriti, sono cresciute nella leggenda e hanno assunto la verità certa del mito […]. I briganti difendevano, senza ragione e senza speranza, la libertà e la vita dei contadini, contro lo Stato, contro tutti gli Stati. Per loro sventura si trovarono ad essere inconsapevoli strumenti di quella Storia che si svolgeva fuori di loro, contro di loro; a difendere la causa cattiva, e furono sterminati. Ma, col brigantaggio, la civiltà contadina difendeva la propria natura, contro quell’altra civiltà che le sta contro e che, senza comprenderla, eternamente la assoggetta: perciò, istintivamente, i contadini vedono nei briganti i loro eroi. La civiltà contadina è una civiltà senza Stato, e senza esercito: le sue guerre non possono essere che questi scoppi di rivolta; e sono sempre, per forza, delle disperate sconfitte; ma essa continua tuttavia, eternamente, la sua vita, e dà ai vincitori i frutti della terra, ed impone le sue misure, i suoi dèi terrestri, e il suo linguaggio […]. 

Anche qui, l’umile Italia storicamente aveva torto, e doveva perdere. Non aveva armi forgiate da Vulcano, né cannoni, come l’altra Italia. E non aveva dèi: che cosa poteva fare una povera Madonna dal viso nero contro lo Stato Etico degli hegeliani di Napoli? Il brigantaggio non è che un accesso di eroica follia, e di ferocia disperata: un desiderio di morte e di distruzione, senza speranza di vittoria. – Vorrei che il mondo avesse un solo cuore; glielo strapperei, – disse un giorno Caruso, uno dei più tremendi capibanda. Questo desiderio cieco di distruzione, questa volontà di annichilimento, sanguinosa e suicida, cova per secoli sotto la mite pazienza della fatica quotidiana. Ogni rivolta contadina prende questa forma, sorge da una volontà elementare di giustizia, nascendo dal nero lago del cuore. Dopo il, brigantaggio, queste terre hanno ritrovato una loro funebre pace; ma ogni tanto, in qualche paese, i contadini, che non possono trovare nessuna espressione nello Stato, e nessuna difesa nelle leggi, si levano per la morte, bruciano il municipio o la caserma dei carabinieri […] e poi partono, rassegnati, per le prigioni. 

Di veri briganti, di quelli del ’60, non ce n’è quasi più. Uno ne vive, mi raccontò la Giulia, qui vicino, a Missanello. È un vecchio di novant’anni, con una gran barba bianca, ed è un santo. Era stato un temuto capo di bande. Ora vive nel paese, onorato dai contadini come un patriarca; si ricorre a lui per consigli in tutti i casi difficili della vita. Mi dispiace di non essere mai potuto andare a conoscerlo. 

 

Nell’immagine: Carlo Levi, “La fossa del bersagliere”.