È stato pubblicato il nuovo libro del prof. Giuseppe Gangemi, già docente di metodologia della ricerca presso l’Università di Padova: “Senza tocco di campane. 1860-1870: le vittime civili taciute della Guerra Meridionale”. Già il titolo (con la bellissima copertina) è chiarissimo e ci rende l’idea delle quasi 400 pagine di ricerche, analisi e fonti in gran parte inedite. Il libro si collega (come un secondo e ultimo capitolo) ad un’altra sua recente pubblicazione: “In punta di baionetta. 1860-1870: le vittime militari della Guerra Meridionale nascoste nell’Archivio di Stato di Torino”.

Tutti quelli che amano la verità storica (e non solo quelli che si battono dalla sponda non “ufficiale”) dovrebbero ringraziare Gangemi per un lavoro che in oltre un secolo e mezzo nessuno aveva mai fatto: un lavoro monumentale, epocale, definitivo, su un tema spesso affrontato in maniera superficiale o parziale da centinaia di studiosi accademici e non.

L’approccio è simile a quello utilizzato nel libro precedente per affrontare il tema dei soldati delle Due Sicilie morti durante l’unificazione a Fenestrelle e altrove: grazie alla trentennale esperienza di docente di metodologia della ricerca, Gangemi parte dai dati conosciuti e citati da diversi testi (nel caso di Fenestrelle in particolare da quello del prof. Barbero), approfondisce, confronta e contestualizza quei dati e applica dei criteri oggettivi (“grimaldelli logici” la sua felice definizione) che ridimensionano o ampliano le notizie e le cifre conosciute. È un metodo inoppugnabile che nel primo caso ha smantellato tutte le tesi “riduzioniste” o “negazioniste” e ha reso impossibile qualsiasi replica o dibattito (repliche e dibattiti finora evitati da Barbero e da altri accademici sulla stessa linea). È un metodo che parte anche da una premessa che più volte il sottoscritto e tutti quelli che frequentano davvero gli archivi hanno evidenziato: è scomparsa o è stata occultata ed è ancora occultata (anche in modo non “plateale” ma di fatto) una enorme massa di documenti archivistici e qualsiasi ricostruzione di numeri e nomi è condizionata da questa premessa oggettiva.

In questo libro l’autore affronta un tema ancora più vasto e complesso trattandosi delle “vittime civili” di quella che correttamente viene definita “guerra meridionale” in quanto si trattò di una vera e propria guerra combattuta nel Sud Italia per oltre dieci anni, al contrario di quanto sostengono da tempo i soliti accademici filo-risorgimentali riducendo il numero di quelle vittime o parlando addirittura di una guerra “civile” (una sorta di “litigi condominiali” tra meridionali stessi).

Dieci i capitoli con i soliti preziosi “riepiloghi” finali, com’è nello stile di Gangemi, tra i (veri) numeri dei garibaldini e i falsi plebisciti, tra le verità (negate e poi ritrovate) su Pontelandolfo e Casalduni e le altre stragi dimenticate (ad esempio in Sicilia), tra le vergognose conseguenze della Legge Pica e dei “domicili coatti” (deportazione legalizzata dei meridionali), i bambini arrestati e uccisi, i “briganti” e i drammatici dati delle statistiche sugli abitanti del Mezzogiorno d’Italia prima e dopo l’unificazione.

Così si confermano in pieno le nostre tesi su quegli oltre 50.000 garibaldini in gran parte provenienti dall’esercito sabaudo e crolla in pieno la solita tesi degli eroici “mille” contro tutti o dei meridionali artefici della spedizione (e dell’unificazione). Così, con l’analisi delle prime rivolte spontanee o delle rivolte a Bronte come a Scurcola o a San Giovanni Rotondo in coincidenza (non casuale) dei plebisciti e a pochi giorni dall’arrivo di Garibaldi a Napoli, crolla anche la tesi di un brigantaggio sociale o guidato e finanziato dai Borbone. Decine, del resto, i paesi nei quali le popolazioni “giurano la loro fedeltà a Francesco II e vengono innalzate le bandiere borboniche”.

Sulle questioni relative a Pontelandolfo e a Casalduni Gangemi smantella tesi e metodi di chi voleva ridurre i numeri delle vittime (pensiamo ai recenti Desiderio o Sonetti) ed evidenzia in diversi casi anche strani “errori” (addirittura con la cancellazione o lo spostamento, nei testi riportati, di frasi o parole pur di confermare le proprie tesi precostituite). Smantellata anche la teoria dell’epidemia come causa del numero (alto) di morti del 1861 confrontato con quello degli anni precedenti e successivi. Intanto, dall’analisi di notizie archivistiche e di documenti locali, risulta molto probabile che 500 uomini in circa 4 ore abbiano potuto seppellire i corpi (anche carbonizzati) di molti pontelaldolfesi (si sarebbe trattato di reparti speciali dell’esercito definiti “saccomanni”, in azione dopo o durante gli incendi e i massacri operati da altri reparti). Da analisi dettagliatissime di giorni e ore risulta anche quello che spesso abbiamo messo in evidenza: la morte dei famosi 41 soldati piemontesi si legava a fatti anche efferati capitati in tutta la zona nei giorni precedenti (saccheggi, violenze e fucilazioni sul posto e senza processi) e non poteva essere frutto di un caso o di una scelta omicida di popolazioni per secoli pacifiche. Altri morti si dovevano registrare come conseguenza dei fatti dell’agosto 1861: migliaia le persone senza più case e in giro per le campagne e sulle montagne anche nei mesi successivi (e morte per stenti e malattie o ricercate dalle truppe a caccia di colpevoli fino addirittura al 1865). Una delle fonti più significative (il diario del suddiacono Niccola Nola) riferisce che, diversi mesi dopo, oltre 24 persone, ad esempio, furono intercettate e trucidate a freddo e “precipitate giù per i burroni” con annesso saccheggio delle loro povere cose, tra “veste e biancherie che i pontelandolfesi e i casaldunesi potettero salvare dell’eccidio delle loro patrie […] e questi sono fatti che leggendoli sui libri non si crederebbero” (e aveva perfettamente ragione il Nola senza sapere che alcuni studiosi sarebbero stati capaci finanche di negarli quei fatti cancellandoli anche dai libri). E intanto anche la politica locale inneggiava a Cialdini e a quello “esterminio” necessario (tra gli altri Villari, Nisco o Giuseppe Vacca).

In base a nuove ricerche ancora in corso, poi, sulla mancanza delle date di morte e sui confronti tra i (rigorosi) censimenti borbonici e quelli successivi (l’autore definisce “ridicole” le tesi critiche contro quei censimenti e anche quelle relative a ipotesi di emigrazione nei paesi vicini), i numeri coincidono: non meno di 1300 i morti nell’eccidio o nei periodi successivi. Altri 700 abitanti della zona furono deportati, poi, nei “domicili coatti” (quando sopravvivevano ai lavori in miniera o restavano al servizio di signori del Nord o, nel caso di orfani, erano adottati o si perdevano in “brutti giri”).
Altro che “solo 13 i morti di Pontelandolfo”, come grida (inutilmente) qualcuno da anni… Altro che gli statuti o le costituzioni sabaude come simboli delle libertà in Italia…

Smantellata, come si accennava in precedenza, anche la tesi della scarsa affidabilità dei censimenti borbonici condizionati dagli errori dei parroci che registravano solo le differenze tra nati e morti: la tesi è falsa in quanto non tiene conto degli “stati delle anime” che invece registravano anche i trasferimenti in altri comuni per lavoro e soprattutto per matrimoni). Nelle Due Sicilie, del resto, si registrava un significativo primato italiano: quello relativo al primo censimento nominativo (1831 in Sicilia) con la successiva Direzione Generale di Statistica a Palermo proprio con la collaborazione proficua di sindaci e parroci.

Del resto su questa tesi (sbagliata) si basavano le critiche ottocentesche e anche quelle recenti (Istat incluso) in risposta alla grande divulgazione dei dati riferibili alle vittime meridionali evidenti tra quei censimenti nei libri di Pino Aprile (in particolare Terroni e Carnefici). Era ed è il tentativo maldestro di giustificare la sparizione post-unitaria di circa mezzo milione di meridionali. È uno “sbaglio”, del resto, che si può capire con la retorica risorgimentalista del tempo ma che si può capire di meno tra gli storici di oggi ai quali basterebbe leggere il libro di Gangemi per comprendere i loro errori (nel caso si trattasse di errori in buona fede). E parliamo, purtroppo, di mezzo milione di persone riferite ad un solo anno e se consideriamo che la “mattanza” continuò per circa 10 anni, le cifre sono da brividi e si avvicinano al famoso “milione di vittime” spesso denunciato come “bugia neoborbonica”.

Del resto Gangemi già nel precedente libro sulle vittime tra i soldati (in particolare a Fenestrelle) aveva rivelato (e non è stato mai smentito) le tecniche di “nascondimento” di nomi e dati negli archivi. Del resto, come detto e come sa chi frequenta davvero gli archivi, è più facile “non” trovare che trovare dei documenti in un archivio e soprattutto se si tratta di temi politicamente delicati dal 1860 ad oggi. Del resto risultano in diversi archivi dei “codici” per mascherare magari le fucilazioni indicate come “morti di passaggio” e fatte registrare da testimoni analfabeti con una croce. La linea è la stessa di quelle indicazioni che anni fa rintracciai in archivio (“non usate la parola fucilazione”, intimava un ufficiale alle sue truppe).

Ad Angelina Romano e ai bambini (morti o orfani) di quegli anni sono dedicate molte pagine visto che diversi documenti attestano come “normale” il loro arresto o la loro deportazione. Tanti i matti, i poveri di mente o i ragazzini uccisi (è il caso di Antonio Colucci fucilato davanti ai genitori presso Nola dalla truppa e solo dopo che i primi “fucilatori” avevano volontariamente sbagliato la mira per pietà).

Approfondita l’analisi anche giuridica della Legge Pica con le sue vittime meridionali e l’ipotesi (per grande difetto) di oltre 60.000 deportati in due anni e mezzo. Sconcertanti i trasferimenti di intere famiglie, di donne, uomini e bambini anche separati tra loro e anche per dei semplici sospetti o solo perché parenti di sospetti briganti negando qualsiasi garanzia legale e cancellando di fatto le tanto sbandierate costituzioni albertine-sabaude. Sconcertanti i passaggi nei quali il celebratissimo Silvio Spaventa, protagonista ed eroe risorgimentale, indica nei suoi telegrammi il “tipo” di meridionale da inviare in Sardegna (donne e parenti anziani da mantenere inclusi). Dall’analisi in particolare degli archivi di Livorno, Lucera e Potenza emergono altri quadri drammatici tra altissime percentuali di morti (forse non inferiori ai 10.000) e ammalati per la durezza dei lavori a Piombino come all’Elba o al Giglio (isola destinata alle donne) con la solita altissima percentuale di omissioni nei documenti e la solita drammatica domanda che spesso ci poniamo: chi e perché, se era vero che eravamo tutti italiani, aveva il diritto di deportare, far ammalare, far morire o ammazzare centinaia di migliaia di persone? E, sempre se è vero che siamo tutti italiani, chi è perché ha il diritto di non far sapere tutte queste storie magari anche nelle nostre scuole?

Sul brigantaggio, infine, le solite gravissime lacune documentarie con una stima di un quinto di documenti scomparsi e si trattava probabilmente proprio di quelli più “scabrosi”: si conservavano, allora, quelli sulle battaglie contro i briganti veri (il filone dei “più bei fatti d’arme”) ma non quelli contro i “battezzati” briganti: migliaia di semplici imbelli o sospetti o innocenti coinvolti in quella guerra.
Come avevo evidenziato in un mio saggio, le cifre di Molfese (il primo a leggere documenti fino ad allora secretati o dispersi dopo circa un secolo da quando erano avvenuti quei fatti) erano approssimate per grande difetto. Oltre alle cancellazioni o ai nascondimenti, analizzando i libri che riportano cifre e/o nomi dei briganti c’è da considerare un aspetto logico fondamentale: non sempre un evento trova riscontro in un documento ed in particolare se si tratta non di briganti-briganti ma di popolazioni civili e di quelli che Gangemi definisce “imbelli”. Applicando i suoi consueti metodi scientifici inoppugnabili e di certo indigesti per gli “avversari”, Gangemi tira fuori alcuni dati importantissimi in merito ai briganti attivi e a quelli morti. Partendo ad esempio solo dai documenti citati nella “Guida alle fonti per il brigantaggio” e da altri testi sui documenti archivistici, le proiezioni statistiche rivelano circa 80.000 briganti attivi e non meno di 38.000 briganti uccisi.

La lettura dei libri di Gangemi, allora, rappresenta un sollievo culturale (esistono accademici coraggiosi e onesti), rappresenta uno strumento prezioso (per la metodologia rigorosissima utilizzata e indicata per future ricerche), rappresenta una piccola soddisfazione personale (al di là delle frequenti citazioni, vengono confermate molte delle tesi esposte dal sottoscritto su molti temi).
Ecco: ripartendo dal titolo e da quella assenza di “tocchi di campane” per le vittime che in tutti questi anni non hanno avuto neanche la possibilità di un funerale, di una messa o di un ricordo in un libro, noi ci auguriamo che questo libro possa diventare una base massiccia per le nuove ricerche su questi temi, nel rispetto proprio di quelle vittime cancellate dalla storia per troppo tempo.

Gennaro De Crescenzo