La verità su Fenestrelle non la vogliono lorsignori; preferiscono le favolette di Alessandro Barbero e altri volenterosi trombettieri dell’ufficio stampa del vincitore. Ma nel numero in edicola, la rivista “Storia in rete” ha dedicato quasi una trentina di pagine al libro “In punta di baionetta”, del professor Giuseppe Gangemi dell’Università di Padova dove ha insegnato Scienza della Politica, Scienza dell’Amministrazione, Metodologia e Tecnica della Ricerca Sociale.

Gangemi indaga sulla fine che fecero i soldati borbonici fatti prigionieri dall’esercito sabaudo che invase il Regno delle Due Sicilie, senza manco dichiarare guerra (e dopo che il Regno di Sardegna fu l’unico Stato preunitario a non partecipare all’incontro a Roma per la nascita di un’Italia unita e federale: i Savoia non volevano essere italiani, ma prendersi l’Italia. Lo fecero con le armi e anni di stragi e saccheggi, infatti, come scrive Eugenio Scalfari: l’Italia non fu unita, ma conquistata, mentre Indro Montanelli diceva che “non è mai nata”).

Nel suo libro, il professore dimostra che la strage negata dei soldati borbonici, non solo a Fenestrelle, è ampiamente deducibile dai documenti dell’Archivio di Stato di Torino, che Barbero consultò (65 unità archivistiche su quasi tremila presenti solo a Torino! Non proprio uno stakanovista, ma a lui bastano le sue convinzioni) per il suo libro negazionista, pieno di insulti contro chi (scrisse cose immonde specie su di me) osava sostenere il contrario, cioè la verità, come dimostra Gangemi e come io riportavo in “Carnefici”, con documenti e tabelle del Ministero della Guerra sabaudo. La dirigenza dell’Archivio di Torino varò addirittura una norma speciale mai esistita prima e mai resa pubblica, per impedire a Gangemi di consultare altri fascicoli; cosa che, indirettamente (eterogenesi dei fini…) favorì il lavoro del professore, dirottandolo su altri documenti che, a sorpresa, si rivelarono più produttivi.

Ho intervistato Gangemi per “Storia in rete” (ed è solo una parte del dossier della rivista sul tema) e qui riporto il nostro colloquio. Ma una cosa la devo aggiungere: quando Marco Esposito mi disse che scriveva “Fake Sud”, gli confidai che Gangemi aveva trovato documenti interessanti su Fenestrelle e che poteva chiedergli di poterli anticipare (uno scoop!) nel suo libro. Sarebbe stato un gesto di grande generosità, da parte di Gangemi, se avesse voluto, visto che “In punta di baionetta” sarebbe stato pubblicato quasi due anni dopo. Esposito parlò con Gangemi, ma non tenne in debito conto quello che aveva saputo: nella migliore delle ipotesi, non ha capito.

E la strage dei soldati borbonici, nel suo libro, resta un accidente (Barbero dice che ne partirono 1200 per Fenestrelle, Gangemi 1300) se non una “Fake news” di quei “neoborbonici” e no, che Barbero, nella sua vergognosa prefazione al libro di Esposito (come chiamare il capo degli ultras del Verona a giudice “imparziale” dei cori contro il Napoli), non perde occasione di insultare nuovamente (con particolare attenzione nei miei confronti, come al solito). E lo fa con tale virulenza, da aver indotto Gennaro de Crescenzo, presidente dei neoborbonici, a querelare Barbero, Esposito e il Mattino, che pubblicò quella colata di fango in prima pagina, senza dare diritto di replica (io scrissi, documentando le fake news di Barbero, e venni relegato fra le lettere al giornale; De Crescenzo, manco quello).

Ora, dinanzi al lavoro ciclopico di Gangemi, il silenzio. Non una segnalazione del libro da parte di Barbero, Esposito, il Mattino, nemmeno per confutarlo (come fosse facile…!); non dico delle scuse e l’onestà di riconoscere l’errore di aver rifiutato o sottostimato documenti che avrebbero smentito la tesi barberiana di fake news su Fenestrelle. E Barbero che evita di replicare (ma non era uno storico, sia pur medievalista riciclatosi risorgimentalista?), forse per non fare un’altra brutta figura, dopo il disastroso (per lui) confronto pubblico con De Crescenzo a Bari, anni fa.

Ok, ognuno fa le sue scelte; si può continuare così, ma ai difensori dell’ormai indifendibile tocca ricordare il detto popolare abruzzese che usai a esergo di “Carnefici”: Quando una cosa nessuno te la vuole dire, la terra si crepa, si apre, e parla. Il tempo degli occultatori di verità sta finendo.
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Giuseppe Gangemi, classe 1949, calabrese, professore ordinario di Scienza dell’Amministrazione presso l’Università degli Studi di Padova, ama occuparsi di storia anche attraverso la statistica. I dati se li va a prendere negli archivi – con le difficoltà che vedremo – e poi li elabora con scrupolo. E con passione, specie se l’oggetto della ricerca riguarda il Regno delle Due Sicilie e il suo drammatico epilogo al culmine del processo risorgimentale. Questi gli ingredienti che l’hanno portato a scrivere «In punta di Baionetta (Rubettino, pp. 216, € 20,00) un libro destinato a far discutere e che riapre una diatriba neanche tanto antica (i «lager dei Savoia» per rifarsi al titolo di un libro uscito tempo fa) anche se si riferisce a fatti accaduti soprattutto tra il 1860 e il 1870 e cioè sulla esistenza o meno di vittime nascoste dall’esercito italiano, vittime borboniche sotto forma di prigionieri di guerra trasferiti al Nord e qui sottoposti a vessazioni e a una dura prigionia che avrebbe causato la morte di molti di loro. Quanti? Lo vedremo tra qualche riga.

Oltre a ricordare che la questione ha suscitato a suo tempo feroci polemiche tra studiosi neo borbonici e, tra gli altri, il professor Alessandro Barbero, qui interessa sottolineare, oltre alle conclusioni cui giunge il professor Gangemi, anche il metodo usato e cioè l’analisi dei dati. Abbiamo chiesto a Pino Aprile, nostro collaboratore e nota «penna» meridionalista, di intervistare per «Storia in Rete» il professor Gangemi e conoscere così meglio le sue tesi. [SiR]

-Professor Gangemi, il suo libro riapre la «Questione Fenestrelle», il forte piemontese trasformato in campo di concentramento dove furono deportati migliaia di soldati borbonici fatti prigionieri dalla truppe sabaude, dopo l’invasione del Regno delle Due Sicilie. Lei porta prove e documenti che innalzano il numero delle vittime a un minimo compreso fra 12.500 e 16.000 (quindi la vera cifra potrà essere solo superiore, non inferiore), contro la presunta «dimostrazione» – da lei contestata con termini che arrivano a «imbroglio» – offerta da Alessandro Barbero, secondo cui i morti furono appena 4-5. Come è arrivato a tali conclusioni?

«Non so se ho riaperto la “Questione Fenestrelle”. La prima motivazione della mia ricerca è stato il pensare che non si può chiudere una questione di tale complessità senza avere competenze specifiche sulle informazioni mancanti o fuorvianti. Ho solo usato questa mia competenza, maturata in decenni di ricerca accademica, quando sono andato a studiare i documenti nell’Archivio Storico di Torino. Questo mi ha permesso di accorgermi di una insistente informazione fuorviante (le erronee figliazioni) [«erronee» o «errate figliazioni» significa che il nome del padre o il nome e cognome della madre del militare è stato riportato in maniera non corretta NdR] oltre che di varie notizie mancanti ma riscontrabili in via indiretta (le registrazioni in ritardo e quelle in anticipo). Infine, ho avuto l’idea di utilizzare i registri delle Compagnie di Disciplina [reparti sot­toposti a trattamento più severo del solito in quanto composti da militari condannati dalla giustizia militare o puniti dai superiori, NdR] e di confrontarli con quello dei Cacciatori Franchi [corpo dell’esercito italiano nel quale furono inglobati molti ex soldati borbonici dopo il 1860, NdR]. Vorrei precisare che non ho mai usato l’espressione campo di concentramento con riferimento a Fenestrelle o ad altri luoghi.
Anche perché, nella descrizione del dispositivo di nascondimento che ho scoperto, non avrebbe avuto senso. I metodi che mi hanno permesso di stimare, con due sistemi diversi che hanno prodotto due cifre diverse (12.500 e 16.000), i numeri minimi di vittime nascoste non sono da me riferiti alla sola Fenestrelle, ma all’intero esercito italiano. Ho anche affrontato una questione che ha sempre avuto un forte valore simbolico: la vicenda dei 1.200 o 1.300 prigionieri di Capua inviati a Fenestrelle nel novembre del 1860.
Qui, ho riscontrato che, su due punti determinanti, Barbero attribuisce affermazioni a due studiosi per rafforzare tesi che non è riuscito ad argomentare in modo convincente: a Bossuto e Costanzo [autori di «Le catene dei Savoia», Edizioni Il Punto, 2012] fa dire che i prigionieri di Capua sono partiti da Genova in 1.200, mentre invece i due dichiarano che, alla partenza, erano 1.300 e che “tutti i prigionieri vennero inviati ai reggimenti e ai depositi dell’Esercito”, mentre i due studiosi hanno fatto questa affermazione relativamente a due elenchi parziali riferibili solo a una parte dei prigionieri, non a tutti. Ho definito queste due operazioni “trucchi o imbrogli” perché, se i prigionieri erano 1.300, come io sostengo, ai 4-5 morti riconosciuti da Barbero, ne vanno aggiunti circa un centinaio, e se non è vero che sono partiti tutti, cosa che i registri lasciano nel vago, ne vanno aggiunti da un minimo di 6 a un massimo di 51.
Infine ho notato un ragionamento zoppicante. Il fatto è il seguente: vari ricercatori non professionisti hanno scoperto che l’Esercito dichiara 4 morti a Fenestrelle tra i prigionieri di Capua, mentre un quinto è stato ritrovato nell’elenco della Parrocchia di Fenestrelle. Dopo aver criticato la teoria che questi ricercatori hanno costruito sulla loro scoperta, Barbero conclude in modo sorprendente: “mistero risolto”. Dopo di che passa a raccontare che Chiesa ed Esercito collaboravano sempre e, quindi, era importante che di questo morto ne avesse parlato uno dei due, non entrambi. Solo che la circostanza da lui riferita avrebbe dovuto portarlo a ben altre conclusioni. Per esempio, a constatare che non sempre l’Esercito trascrive nei registri le notizie relative alla morte dei propri soldati e che, per fortuna, il solerte parroco di Fenestrelle ha aiutato a scoprire il nascondimento. Il che autorizza a pensare che, se l’Esercito l’ha fatto una volta, perché non avrebbe potuto farlo tante altre volte?».

-Lei ha trovato una serie di furbate e trappole burocratiche per nascondere la sparizione dei soldati bor­bonici deportati e poi incamerati nell’esercito sabaudo. Può riassumerle? E qual è stata la chiave di volta delle sue ricerche? Cosa ha aperto il campo alla scoperta di quegli impressionanti dati?

«Quando mi sono definito esperto di informazioni mancanti o fuorvianti mi riferivo all’atteggiamento mentale che avevo prima di andare all’Archivio di Stato di Torino. Pensavo che sarebbe stato difficile trovare quelle informazioni. Ma quando ho trovato, nel Registro del 41° Reggimento, 85 erronee figliazioni, ho capito che non era poi necessario avere tanta competenza specialistica. Era di per sé anche troppo evidente che la scritta nascondesse la decisione di togliere quei soldati dal registro dei Ruoli Matricolari. Come mostra anche il fatto che, una volta accortisi dell’errore, nessuno degli 85 è stato riscritto più avanti nello stesso registro o in quelli successivi. L’assorbimento di questi soldati nell’Esercito italiano non era stato portato a compimento per qualche ragione e i loro nomi andavano quindi tolti dai Ruoli Matricolari.
E siccome sono note le perplessità di molti soldati duosiciliani circa il giuramento al Re d’Italia, questa mi è sembrata l’unica possibile ipotesi ragionevole: sono soldati che si sono rifiutati di giurare fedeltà a re Vittorio Emanuele II. 85 rifiuti in un reggimento, che Barbero dichiara rappresentativo dell’intero Esercito, significano 8.500 nell’intero Esercito, ma significano anche il 30% dei Meridionali arrivati ai Reggimenti nei primi sei mesi del 1861. Le erronee figliazioni si sono portate appresso le registrazioni in ritardo e quelle in anticipo dei mesi e anni successivi. La chiave di lettura è stata semplice: scoperto che i burocrati dell’Esercito tendono a nascondere le informazioni scomode (le morti, i rifiuti di giurare fedeltà al Re, etc.), il resto è seguito».

-Lei racconta anche che un indiretto aiuto le è giunto dagli ostacoli posti alle sue ricerche dal personale e dalla direzione degli Archivi di Stato di Torino, addirittura con regole «contra personam» varate dalla sera alla mattina e mai pubblicate. Le è mai stata data una spiegazione accettabile di un tale incredibile comportamento?

«Questa è stata, ex post, una cosa che mi ha fatto sorridere. Ma, mentre avveniva, l’ho vissuta diversamente: ero semplicemente sbalordito. Finché ho analizzato il 41° Reggimento, nessun ostacolo mi è stato posto. Quando ho chiesto i primi registri dei Cacciatori Franchi, sono cominciati i problemi (i registri, ordinati la sera, non li ho trovati pronti per la consegna la mattina) e gli ostacoli (sono stato indirizzato a informazioni alternative non rilevanti e incomplete). Quando ho chiesto i registri delle Compagnie di Disciplina, la reazione è stata una circolare che non è citata nel regolamento di consultazione dell’Archivio e che nessuno mi ha esibito, secondo la quale non potevo chiedere più di 10 registri a settimana. Ho fatto finta di niente per vedere fin dove si spingevano… Alla fine, mi hanno fatto un favore: sono andato a studiare le carte relative ai prigionieri di Capua a Fenestrelle che, probabilmente, non avrei consultato. E ho scoperto che la storia raccontata da quei documenti era diversa da quella narrata da Barbero».

-Lei rimprovera ad Alessandro Barbero di non aver rispettato le regole del ricercatore, per piegare le conclusioni alle sue premesse e predeterminare il risultato. Quali delle scorciatoie che denuncia ritiene più gravi?

«Barbero è uno storico medievalista e, in quel settore, è sicuramente molto bravo. Per esempio, io trovo eccellente il suo libro sui “Barbari immigrati, profughi, deportati nell’Impero Romano”. Si muove bene quando i dati sono pochi, come spesso sono i dati sul Medioevo. Diverso è, però, quando i dati sono molti, condizione di fronte a cui si trova ogni storico contemporaneista. Io sono un metodologo della ricerca, abituato a gestire molti dati, preferibilmente con il metodo comparato. Nel mio volume, ho elencate quattro regole metodologiche che sono utili quando si hanno molti dati. Sono regole che Barbero non rispetta: non si può escludere un documento che ne contraddice un secondo, con un’argomentazione sbrigativa (del tipo, quel testimone «si sbagliava»); un documento successivo a un evento è più affidabile di un documento antecedente, perché le cose non sempre vanno come programmato, e un testimone che partecipa a tutto l’evento è più affidabile di un testimone che assiste a un solo momento dell’evento; i documenti vanno sempre analizzati per intero, non per singole parti, ignorando il resto; occorre imparare a individuare le situazioni di collateralità che permettono di impiegare la logica comparativa codificata da John Stuart Mill attraverso il canone della differenza. Questi, però, sono limiti, su cui ci si può confrontare e non sono definibili come gravi errori o indebite scorciatoie. Diverso è quando si cita, a sostegno delle proprie affermazioni, il lavoro di storici, che fanno affermazioni diverse da quelle citate».

– È impressionante la serie di citazioni sbagliate usate da Barbero a corredo delle sue affermazioni e che non corrispondono all’originale dei testi cui fa riferimento. Quali sono i suoi rapporti con Barbero?

«A parte le due citazioni che ho osservato essere non rispondenti al vero, le altre citazioni da Bossuto e Costanzo sono sviste: quando sono andato a controllare ho trovato che, nelle pagine citate da Barbero, i due parlano di cose del tutto diverse rispetto a quelle per cui sono citati. Sono errori che denotano distrazione, ma ininfluenti rispetto alla gestione degli argomenti che contano. I miei rapporti con Barbero li descriverei così: ogni tanto mi spedisce delle e-mail e io rispondo ai punti che mi pone. Nel 2014, ho pubblicato il mio primo articolo su Cesare Lombroso, senza mai citare Barbero. Ciò malgrado, egli si è sentito chiamato in causa, mi ha chiesto se una mia frase fosse riferita anche a lui e mi ha anticipato che, nel caso, intendeva querelarmi. Mi ha pure comunicato che stava valutando la possibilità di chiedere al Rettore della mia Università sanzioni disciplinari nei miei confronti. Contemporaneamente, inviava la sua e-mail per conoscenza al Rettore e invitava me a rispondergli inviando la risposta per conoscenza al mio Rettore. Io ho risposto con sincerità: la mia frase non conteneva riferimenti alla sua persona, anche perché non sapevo si fosse interessato di Lombroso, e nemmeno sapevo che fosse tra gli estimatori del Museo Lombroso. Di recente, dopo l’uscita del mio libro, “In punta di baionetta”, mi ha spedito una e-mail per chiedermi della vicenda del 2014, che egli non ricordava (ne avevo accennato nella premessa del volume). Gli ho descritto la vicenda. Mi ha risposto facendomi notare che ha solo minacciato di chiedere sanzioni disciplinari nei miei confronti, ma che non lo ha fatto realmente. Gli ho risposto che, avendo inviato al Rettore, per conoscenza, la sua minaccia e descrizione del motivo per cui stava valutando l’ipotesi di chiedere sanzioni disciplinari, e avendo richiesto a me di rispondere inviando per conoscenza la risposta al Rettore, tecnicamente aveva dato avvio a una denuncia».

– Lei presenta un elenco di meccanismi culturali e addirittura psicologici che legano il dominio del presente da parte dei vincitori, all’aver prevalso, donde deriverebbe un diritto alla ragione del più forte che si riconferma generazione dopo generazione. E al servizio di questo opererebbero le strutture culturali di Stato. Come?

«Un decalogo di regole che si reiterano nella storia d’Italia. Ho trovato che i nostri migliori intellettuali hanno combattuto contro queste regole non scritte e che non sono stati ascoltati perché non hanno mobilitato opinione pubblica a loro favore. Ho trovato queste regole anche nei comportamenti di Lombroso e ho verificato che le critiche di studiosi più seri di lui, per lo stesso motivo di cui sopra, non sono state ascoltate. Io ritrovo queste regole in tutti i colleghi che me le hanno ricordate in margine a convegni a cui ho partecipato o a cose che ho scritto. Le ritrovo anche nella, per me incomprensibile, decisione dell’Università di Torino di puntare sul Museo Lombroso e di lasciare chiuso il proprio Museo di Antropologia ed Etnografia il quale esponeva anche preziosi manufatti egizi (dico «esponeva» perché il Museo è chiuso al pubblico dal 1984 in quanto il palazzo che lo ospita non risponde più ai criteri di sicurezza)».

– In Italia, ogni voce dissonante dalla versione ufficiale dell’unificazione del Paese viene soffocata, irrisa, negando alla storia il revisionismo che è la forma di approssimazione costante e progressiva alla verità raggiungibile, strumento di conoscenza, per le stesse scienze naturali. Di norma si rimprovera una sorta di invasione di campo ai non accademici, fuori casta. Ma lei è docente all’università di Padova. Come ha vissuto questa condizione ad excludendum?

«Permettetemi di dissentire da questo giudizio. L’accademia ha elementi di casta, non vi è dubbio, in quella che Robert Merton ha chiamato struttura sociale della scienza, quella che pone al vertice un Rettore, i Direttori di Dipartimento, i professori ordinari, etc. Non li ha, invece, in quella che Merton ha chiamato struttura cognitiva della scienza. Nella struttura cognitiva dell’accademia non c’è alcuna conventio ad excludendum. Nella struttura sociale conta il ruolo accademico. Nella struttura cognitiva l’esclusione è rivolta a tutti coloro che non rispettano le regole della ricerca scientifica. Nella produzione di conoscenza, la regola fondamentale è la trasparenza massima possibile. Questa trasparenza la si ottiene citando le proprie fonti nel modo più completo possibile. Anatema, quindi, a chi non cita fedelmente le fonti, in modo talmente preciso da facilitare i controlli di altri ricercatori. Un ricercatore accademico (e mi riferisco a quelli senza prosopopea, ai più giovani) considera chi non cita le fonti uno che manca di mestiere oppure un arrogante che si sente al di sopra delle regole della verifica scientifica. Una regola banale, ma importante, è che gli accademici sono uomini come tutti gli altri. E come uomini, a volte, i ricercatori accademici usano la puntigliosità delle note come un bluff. Le mettono tutte in fila, come un esercito, per convincere gli avversari che sarebbe troppo rischioso e costoso vedere le carte. L’esercito di note di Barbero può impressionare. Come ho spiegato, nella premessa del mio libro, non avevo intenzione di controllare il suo lavoro. Alla prima lettura del suo libro avevo notato due punti deboli della sua narrazione e un argomento zoppicante (i tre di cui ho detto in apertura), ma l’impianto delle note appariva così impressionante che ho pensato che non fosse utile contrastarlo per aspetti marginali. Poi, i divieti del personale dell’Archivio mi hanno regalato tre giorni in cui l’unica cosa che potevo fare era passare il tempo a controllare il lavoro di Barbero. Il controllo, a quel punto, è diventato un modo per usare tempo che altrimenti avrei sprecato. I due piccoli punti deboli e l’argomento zoppicante si sono rivelati molto più … Ne è derivato un effetto domino. Vorrei concludere con un messaggio che mi preme trasmettere. La struttura sociale della scienza prevale nel breve periodo; nel lungo, prevale la struttura cognitiva. I libri di Pino Aprile, di Gennaro De Crescenzo, Gigi Di Fiore, Lorenzo Del Boca (e spero anche il mio) possono essere ignorati oggi per le trame della struttura sociale. Ma poiché hanno prodotto un forte movimento di opinione pubblica a favore, domani saranno presi in mano dai giovani ricercatori di oggi e presentati come i nuovi classici della storiografia risorgimentale. Anche perché nascono da un problema reale e hanno proposto soluzioni reali per una pacificazione consensuale che le ex Due Sicilie aspettano da 160 anni».