Da “Storia in Rete” (maggio 2022). In questi anni è in corso un dibattito vivace e molto seguito tra un fronte “neoborbonico-revisionista” e un fronte “risorgimentalista” che segue la scia della storiografia “ufficiale” di impronta liberal-massonica-giacobina nata oltre un secolo e mezzo fa. I numeri, però, sono sempre più impietosi e significativi e basta dare un occhio a post, articoli, video o dirette (spesso con imbarazzanti presenze di 3/4 spettatori e 7/8 relatori) per capire che aveva ragione Ernesto Galli della Loggia: “ormai le tesi [neoborboniche] sono maggioritarie”. E aveva ragione anche il suo collega Luigi Musella: “un errore snobbare i neoborbonici, sul piano degli studi è mancata una ricerca rinnovata e si è pensato che tutto fosse stato già detto”. E risultano tanto più chiare e gratificanti le parole del direttore di Storia in Rete, una rivista che ha anche il merito di ospitare questi ampi e interessanti dibattiti senza preclusioni o preconcetti: “non si deve pensare che [i neoborbonici] siano proprio tutti degli sprovveduti: su Youtube è facilmente reperibile il video del lungo e acceso confronto barese tra Barbero e Gennaro De Crescenzo, storico archivista e presidente del movimento neoborbonico e proprio a De Crescenzo si deve l’avvio di una vasta ricognizione negli archivi pubblici, a opera di vari ricercatori, per cercare il maggior numero di riscontri alle tesi meridionaliste”. Ancora più gratificanti le parole del prof. Giuseppe Gangemi sia nel libro (“in sostanza nel famoso dibattito di Bari la metodologia neoborbonica era quella giusta”) che nell’intervista rilasciata a Pino Aprile e pubblicata sul numero di marzo per presentare il suo nuovo libro (“In punta di baionetta”): “I libri di Aprile, De Crescenzo, Di Fiore, Del Boca possono essere ignorati oggi, ma poiché hanno prodotto un forte movimento di opinione pubblica, domani saranno presentati quali nuovi classici della storiografa risorgimentale”. E -aggiungiamo noi ringraziando Gangemi- lo diventeranno anche i suoi libri e in particolare quello dedicato alla “falsa scienza di Lombroso” e, come dicevamo, quello nuovo su Fenestrelle. Si tratta di due “casi di studio”. Nel primo caso alcuni studiosi (e tra essi il famoso Alessandro Barbero) hanno cercato di dimostrare che lo scienziato veneto-sabaudo non sosteneva tesi razziste anti-meridionali. Peccato che per dimostrarlo siano state ignorate, di fatto, le stesse teorie lombrosiane e numerosi studi scientifici (puntualmente riportati da Gangemi) che nel corso di un secolo e mezzo hanno associato Villella con il suo famoso teschio, ai calabresi, ai meridionali e all’idea di un’inferiorità razziale che prima fu utilizzata per giustificare il massacro di migliaia di “briganti” e poi per giustificare la mancata risoluzione della questione meridionale con quei terroni da sempre inferiori e incapaci finanche di farsi aiutare. Il nodo, forse, è proprio lì. In occasione della riapertura del Museo Lombroso a Torino contattai il sindaco di Motta Santa Lucia, Amedeo Colacino, invitandolo a chiedere al museo la restituzione dei resti di quel loro antico concittadino per dargli (finalmente) un’adeguata sepoltura magari dopo una cerimonia religiosa e un convegno che avrebbero chiuso per sempre la vicenda di un uomo che, “brigante” o meno, aveva subito una inutile e secolare “umiliazione”. Da lì i comitati con l’adesione di migliaia di persone e di sindaci, il primo grado di giudizio (favorevole alla cittadina calabrese) e il successivo ricorso del museo con successiva “vittoria” piemontese. La domanda è una: perché mai il museo non ha fatto un bel calco in resina e non ha restituito quei resti chiudendo la questione nella maniera più serena e semplice? Perché mai continuare ad esporre quel “trofeo” per giunta in un museo che, a detta degli stessi responsabili -caso unico nel mondo della scienza- servirebbe per capire “gli errori della scienza”?
Evidentemente, se è vero che revisionisti&neoborbonici ritengono quei resti il simbolo di tutta una serie di questioni, evidentemente anche la “controparte” pensa che siano dei simboli. Ma mentre neoborbonici&revisionisti pensano che possano essere utili per trovare, nell’orgoglio e nel senso di appartenenza, l’atteso riscatto del Sud, qual è il vero obiettivo della “controparte”? Continuare a raccontare la subalternità del Sud e ad evitare riforme o interventi che possano finalmente essere utili per la risoluzione delle questioni meridionali? O qualcuno pensa davvero che quelle questioni siano la conseguenza non di scelte politiche sbagliate ma (senza avere il coraggio di ammetterlo) di una effettiva inferiorità razziale dei terroni?
Schemi simili anche per Fenestrelle, il secondo “caso di studio” in cui alcuni studiosi (e tra essi il famoso Alessandro Barbero) hanno cercato di dimostrare che le vittime furono pochissime e quella fortezza-prigione era in sostanza quasi una sorta di albergo a 5 stelle.
La tesi di partenza “ufficiale” è che al Sud non ci fu una vera opposizione al processo unitario e che gli stessi meridionali siano stati artefici di quel processo. Di qui una serie di corollari con i briganti tutti delinquenti e criminali ordinari e magari pure cannibali, con il brigantaggio inteso in sostanza come una guerra civile e tutta interna al Sud. Poche le vittime, allora, come pochissime erano state quelle di Fenestrelle e conclusioni scontate: se le questioni meridionali sono nate e non sono ancora state risolte la colpa è sempre e comunque del Sud, un Sud arretrato dalla preistoria ai Borbone. E così non si possono tollerare ricerche e libri che dimostrano come i meridionali (centinaia di migliaia, soldati e civili) si siano ribellati a quella che ritenevano un’invasione e come spesso abbiano preferito combattere, rinunciare a carriere facili o essere deportati o restare in carcere per anni o morire per oltre un decennio, tra il 1860 e il 1870, prima di aprire la pagina dell’emigrazione (a milioni in un fenomeno drammatico mai conosciuto prima e ancora vivo sulla pelle dei giovani di un Sud che si avvia verso la desertificazione). Il problema vero per tanti accademici, però, è che ormai le ricerche sono andate avanti e si sono diffuse passando dagli storici volontari (neoborbonici e non) ai loro colleghi. E così i Daniele, i Malanima, i Fenoaltea o i Ciccarelli o i Tanzi attestano che la tesi dell’arretratezza del Sud preunitario “fu una invenzione degli artefici dell’unità per giustificare i loro fallimenti” (cfr. John Davis). Da lì, in fondo, il filone “neoborbonico” con tanti studi sulle (vere) condizioni del Sud preunitario o magari sui tanti primati delle Due Sicilie: nessuno ha mai detto, del resto, che era il paradiso. In tanti avevano detto e dicono, invece, che era un territorio con un suo sviluppo fermato esattamente nel 1860 invertendo tutti i trend positivi in trend negativi, trend rimasti tali fino ad oggi senza alcuna soluzione di continuità (crescita demografica, vita media, longevità, servizi sanitari, occupati nelle industrie, redditi medi, emigrazione).
E così il prof. Gangemi smantella punto per punto le tesi “riduzioniste o negazioniste” di Fenestrelle dopo anni di ricerche archivistiche attestando diverse migliaia di vittime tra i soldati delle Due Sicilie dall’alto della sua pluridecennale cattedra all’università di Padova (“metodologia della ricerca”). E ci suscita qualche perplessità e qualche sorriso finale la timida replica di Marco Vigna (se per Barbero valevano e valgono le proiezioni statistiche perché mai non dovrebbero essere valide le proiezioni -su basi molto più ampie- di Gangemi? Davvero strana, poi, anche la tesi secondo la quale i militari non avrebbero potuto fare errori per paura di eventuali multe o punizioni…). In conclusione la linea che finora si è rivelata vincente è stata e sarà proprio quella della “public history”: la definizione cara ai nostri “avversari” e usata spesso, con un pizzico di paura e di settarismo, evidenziandone i rischi come se la storia non fosse per sua stessa natura aperta a tutti e come se non vivessimo nel XXI secolo (web e social inclusi). In attesa, allora, delle prossime ricerche di Gangemi (sulle vittime civili del cosiddetto “brigantaggio”) e di altri studiosi anche su altri temi, noi continueremo ad amare e a divulgare la storia sulla nostra vecchia e paradossalmente innovativa ed efficace linea (memoria, orgoglio e, prima o poi, riscatto).
Gennaro De Crescenzo
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