Se fossi al posto dell’autore di turno, chiederei a Ugo Cundari del Mattino di non scrivere nulla sul mio libro. La sensazione è che l’indefesso giornalista applichi a tutte le sue recensioni lo stesso meccanismo: rintracciare tra le pagine qualsiasi riferimento contro Borbone&Neoborbonici ed esaltarlo fino a fare di quel libro un libro anti-borbonico anche quando quel libro magari non è anti-borbonico (attivando reazioni e polemiche e magari limitando pure i potenziali acquirenti…). Questa volta (5/1/22) parliamo di un testo dedicato a Francesco Proto, duca di Maddaloni definito nel titolone, “fustigatore dei Borbone” e “costretto a forza nel pantheon degli eroi dei neoborbonici”.
E così si citano dei brevi passaggi in cui il Proto parlò male della “tirannide borbonica” ignorando totalmente la successione cronologica (e logica) degli interventi di uno dei primi grandi “meridionalisti” capaci di denunciare quello che l’articolista, quasi di sfuggita, sintetizza nella brevissima frase: “poi scrisse parole sull’unificazione imperfetta”.
Se è vero, allora, che nell’aprile del 1861 il Proto chiedeva al governo italiano di portare a Napoli la capitale, è vero, verissimo che 7 mesi dopo pronunciava il famosissimo discorso-denuncia dopo il quale “lo avrebbero costretto a dare le dimissioni” (e lo dici così? Come se fosse normale sbattere fuori da un parlamento chi raccontava la verità? E poi magari non ti domandi neanche come sono state selezionate le pessime classi dirigenti meridionali dal 1861 ad oggi…).
E allora, forse, è opportuno ricordare all’ineffabile giornalista del Mattino cosa scrisse Proto in quel discorso (censurato e cancellato) e come mai sia diventato “un eroe dei neoborbonici” e perché non sono stati i neoborbonici a metterlo nel loro “pantheon” ed è vero il contrario: fu il Proto a raccontare tante verità e a farcele conoscere diventando (da anti-borbonico) uno dei testimoni eccellenti per ricostruire la (vera) storia dell’unificazione italiana, quella che passò per massacri indiscriminati, saccheggi di banche e industrie e per una colonizzazione ancora “viva” sulla pelle dei meridionali.
E riecheggiano ancora, forti e amare, le sue parole pesanti contro i governanti del tempo e contro la “stampa meretrice”…
“Bella unificazione è quella di una contrada cui si affoga in un mare di sangue, cui si crocifigge in un letto di miserie! Questa è invasione non unione, non annessione! Questo è un voler sfruttare la nostra terra, siccome terra di conquista”…
Gennaro De Crescenzo

FONTI

– Francesco Proto, duca di Maddaloni, aprile 1861
PARTE DEL DISCORSO “DIMENTICATO” DAL GIORNALISTA TROPPO IMPEGNATO, FORSE, A CITARE I PASSI CONTRO I BORBONE…

“Declinava la rivoluzione […] per imperizia di chi erane preposto al reggimento e perché alla tirannide dei Borboni succedeva (dobbiamo pur addimandarla pel nome suo?) la tirannide dei fuorusciti; veniva in odio per gli errori del governo centrale, che credette l’agnella potesse papparsi il toro senza a mezzo il pasto crepare […]. Il governo piemontese, a parer mio, doveva temporaneamente sicilianizzarsi, doveva stabilirsi in quelle nostre contrade […]. La polvere e il piombo piemontese hanno il colore stesso e l’odore della polvere e del piombo borbonici, né con men tristo animo si entra una prigione perché un vessillo tricolore vi sventoli al sommo”.

– Francesco Proto, duca di Maddaloni, novembre 1861.
“Hanno insanguinato ogni angolo del regno, combattendo e facendo crudelissima una insurrezione, che un governo nato dal suffragio popolare dovrebbe aver meno in orrore. Il governo di Piemonte toglie dal banco il danaro de’ privati, e del danaro pubblico fa getto fra i suoi sicofanti; scioglie le Accademie, annulla la pubblica istruzione.
Il Plebiscito del 21 ottobre […] era anche figliuolo della temenza incussa agli abitatori di questa nostra contrada. [E a dire] della tirannide e dalla rapacità piemontese […]. I popoli del napoletano non volevano i Piemontesi. Chi ciò niegasse non meriterebbe risposta, perchè uomo compro o demente — I popoli del Napoletano non volevano i Piemontesi: hanno infrante e sperperate le forze e le ricchezze da tanto secolo ammassate: hanno spoglio il popolo delle sue leggi, del suo pane, del suo onore, e sin dal suo stesso Dio vorrebbero dividerlo,
Il Governo di Piemonte […] al reggimento delle provincie mette uomini di parte, spesso sanguinosi ladroni; caccia nelle prigioni, nella miseria, nell’esiglio, non che gli amici e i servitori del passato reggimento (onesti essi siano o no, che anzi più facilmente se onesti) ma i loro più lontani congiunti, quelli che non ne hanno che il casato; ogni giorno fa novello oltraggio al nome napoletano,
facendo però di umiliare cosi nobilissima parte d’Italia. II Governo Piemontese trucida questa metropoli che la terza è di Europa per frequenza di popolo, e la prima d’Italia per bellezza di doni celesti e la più gloriosa dopo Roma; questa metropoli onorata e serbata libera sin dagli stessi dominatori del mondo, questa è stata sedia di tanti re potentissimi, che regnavano o proteggevano quasi tutti gli altri stati d’Italia e, sotto ai principi di Soave, capitale dello impero; e dopo averla oltraggiosamente aggiogata alla sua Torino, alla più povera ed alla meno nobile delle città d’Italia, a Torino la cui storia nelle istorie della penisola occupa non più lunghe pagine, che quelle dei feudi di Andria o di Catanzaro o di Atri o di Cotrone, ora le viene a togliere anche il misero decoro di una luogotenenza, toglie i ministeri, gli archivi, il banco del denaro de’privati, i licei militari.
La loro smania di subito impiantare nelle provincie napoletane quanto più si poteva delle istituzioni di Piemonte, senza neppur discutere se fossero o no opportune,
fece nascere sin dal principio della dominazione piemontese il concetto e la voce piemontizzare. Furono i piemontizzatori che sottrassero l’insegnamento pubblico alla necessaria vigilanza dell’Episcopato, ed essi abolirono dall’Università Napoletana la facoltà di teologia, senza la quale non è università. E frattanto l’istruzione elementare non progredisce passo. I comuni mancano quasi tutti di scuole ad onta dei tanti ispettori, sotto-ispettori,organizzatori, bidelli, e scelti tutti tra i piemontizzatori, nè pochi venuti di Piemonte. Per uomini del governo piemontese fu dato lo scandalo singolare della dissoluzione della famosa Accademia Napoletana delle Scienze e di Archeologia, e l’Istituto di Belle Arti venne abolito con un decreto di luogotenenza.
E la pubblica istruzione perisce… E dopo tanto sperpero della publica pecunia è egli ricco il popolo? — Ha pane, ha lavoro, suprema bisogna dell’umanità? — Intere famiglie veggonsi accattar l’elemosina; diminuito, anzi annullato il commercio; serrati i privati opifici per concorrenze subitanee, intempestive, impossibili a sostenersi e per lo annullamento delle tariffe e per le mal proporzionate riforme; burocratici di Piemonte occupano quasi tutti i pubblici uffizi, gente spesso ben più corrotta degli antichi burocratici napoletani e di una ignoranza e di una ottusità di mente cne non teneasi possibile dalla data gente del
<span;>mezzodì. Anche a fabbricare le ferrovie si mandano operai piemontesi, ed i quali oltraggiosamente pagansi il doppio che i napolitani. A facchini della dogana, a carcerieri, a birri vengono uomini di Piemonte, e donne piemontesi si prendono a nudrici nell’ ospizio dei trovatelli, quasi neppure il sangue di questo popolo più fosse bello e salutevole. Questa è invasione non unione, non annessione! Questo è un voler sfruttare la nostra terra, siccome terra di conquista. Il Governo di Piemonte vuole trattar le provincie meridionali come il Cortes od il Pizzarro facevano nel Perù e nel Messico,come i Fiorentini nell’agro pisano, come i Genovesi nella Corsica, come gl’ Inglesi nei regni del Bengala. Ma il governo piemontese che non ha riconosciuto i gradi conceduti ai valorosi difensori di Gaeta, perocchè difendevano ciò che è sacro per ogni uomo di onore, di qualunque parte, di qualunque nazione esso sia, la Religione della loro bandiera, bene avrebbe dovuto poi, non che rispettare quelli guadagnati dai disertori dell’esercito borbonico, levare a cielo le loro persone, far loro l’apoteosi. Ma che dico io di un governo che strappa dal seno delle loro famiglie tanti vecchi generali, tanti onorati uffiziali, sol per sospetto che nudrissero amore per il loro Re sventurato, e rilegagli a vivere nella fortezza di Alessandria, od in altre inospite terre di Piemonte? Che dirò io degli uffiziali deportati all’ isola di Ponza? — Loro delitto fu il militare per la corona, allora che re Francesco II ancora combatteva per essa sullo riviere del Volturno e del Garigliano o fra le mura di Gaeta? Il sangue di questa guerra fratricida piombi su quelli che l’accesero, ed esso gli affogherà, perocche sono rei, di meglio che ventimila uomini spenti, quali nella lotta, quali fucilati perchè prigionieri o sospetti od ingiustamente accusati; e di 13 paesi innocenti dati in preda al sacco ed al fuoco. Essi colpevoli dello aver fatto nascere e fecondato la insurrezione, crede poterla vincere con il terrorismo, e con il terrorismo crebbe l’insurrezione,e così corrompesi anche quel solo di buono che avevasi il Piemonte.
Gente della nostra patria vien passata per le armi senza neppur forma di giudizio statario, sulla semplice delazione di un nemico, pel semplice sospetto di aver nudrito o dato asilo ad un insorto.
Soldati piemontesi conducono al supplizio i prigionieri, negando loro i supremi conforti della Fede; nè a pochi feriti venne ricusata l’opera del cerusico, cosicché furono lasciati morire nelle onibili torture del tetano.
Aimè! Mercè questo governo che ci asserisce, il soldato onde speravamo la franchezza d’Italia, è tenuto nelle provincie napoletane siccome nemico di Dio! Nei vortici di fiamme che divoravano il vecchio ed adusto Pontelandolfo udivansi alcune voci di donne cantanti litanie e miserere. Certi uffiziali si avanzarono verso l’abituro onde veniva quel suono, ed aperto l’uscio, videro cinque donne che scapigliate e ginocchioni stavano attorno di un tavolo su cui era una croce con molti ceri accesi. Volevano salvarle; ma quelle gridando: — Indietro… maledetti! Indietro! … Non ci toccate, lasciateci morire incontaminate!… Si ritrassero tutte in un cantuccio, e tosto sprofondò il piano superiore e furono peste le loro ossa, e la fiamma consumò le innocenti.
Il giorno posteriore a tanto eccidio, all’incendio di due paesi, di Pontelandolfo e di Casalduni, l’uno di cinque l’altro di sette mila anime, leggevasi nel Giornale Ufficiale di Napoli il telegramma: Ieri mattina, all’alba giustizia fu fatta contro Ponlelandolfo e Casalduni. (Dispaccio telegrafico da Fragneto Monforte 14 Agosto ore 7 a. m. —Giornale ufficiale di Napoli, N» 194). No! Il diario di Nerone non avrebbe più cinicamente portata la novella di quegli orrori! Sì, è questa la verità delle cose, non quella che va strombazzando una stampa meretrice, il mendacio comperato a dieci o più mila franchi per mese. E a che valse al governo piemontese lo aver chiuso tutti gli aditi perchè la luce non possa uscire? A che vale lo aver compro i giornali più letti di Europa? Questi che l’anno scorso , mentre sua fortuna rigogliava, maledicevano di esso, ne dicean perduto; ed oggi ch’è morituro, lo dicono forte e vincitore ?
E pure non valsero ad ingannare persona. Tutt’Europa ora sa che n’è delle cose nostre, ed il nome del governo piemontese si oltraggia per ogni terra. Ed egli è per queste ragioni che io mi fo oso domandare le Onoranze Vostre vogliano votare un inchiesta parlamentare nelle provincie meridionali, ed avvisare però alche possa farsi per tenere in pace od in fede queste contrade. Per verità ciò che io, sei mesi or sono, consigliava cioè il trasferire a Napoli la sede della monarchia, oggi nol saprei più suggerire, perciocchè lealtà di gentiluomo mel difende. Il governo piemontese metterebbe in compromesso l’antico, senza poter più serbare il novello acquisto. Rinsaviamo dunque…”.