“Io provo un sincero dolore quando leggo commenti sulle sfavillanti bellezze di Napoli contrapposte all’oscurità di Gomorra”. Sono le parole di Roberto Saviano (Corriere 7/1/22) che continua: “le bellezze di Napoli non sono sfavillanti, ma piene di crepe e cicatrici e la città è costantemente oltraggiata da agguati che avvengono tra i suoi abitanti, mettendone costantemente a rischio l’incolumità”. Noi non sappiamo dove viva Saviano ma, pur vivendo e lavorando a Scampia e pur non negando tanti problemi (tipici di qualsiasi metropoli del mondo), questa Napoli così “cupa” e piena di sparatorie e di crepe non la conosciamo. Caro Roberto, “chi usa le bellezze di Napoli” non lo fa “per delegittimare il racconto di ciò che accade” ma perché ha bisogno di bellezza e orgoglio e non ne può più di cronache nere (è quello che di Napoli raccontano h24) e, per giunta, pur capendo il tuo dolore quando contrappongono la tua gomorra a quelle bellezze, chi “usa le bellezze di Napoli” forse non ne può più di gomorra libro, gomorra film e gomorra 1, 2, 3, 4 e 5 venduta in tutto il mondo. Ci dispiace ricordare anche a te, poi, una cosa davvero banale: la famosa e seguitissima trasmissione di Alberto Angela non era un servizio di un tg ma nasceva proprio per esaltare le “luci di Napoli”, visto che spesso “fanno prevalere le ombre” e ci dispiace annoverare anche te tra quelli colpiti dalla “sindrome delle ombre a tutti i costi” e del “ma” sempre e comunque. Intanto ti confessiamo che non ci è piaciuto molto quel velato (mi scuso per il gioco di parole) e forse esagerato paragone tra le meraviglie del Cristo Velato con la sofferenza descritta dallo scultore e la necessità di raccontare la sofferenza (Saviano come Sanmartino?). Intanto restiamo in attesa e da tempo di conoscere i nomi e i cognomi di quelli che tu chiami genericamente “oppressori”: quelli che impedirebbero di “riempire le bellezze di Napoli di diritti e opportunità”. Qui potremmo essere pure d’accordo ma sappiamo (anno per anno e dati alla mano) che questa cosa capita da circa un secolo e mezzo. Premesso che mafie&camorre sono state e sono funzionali a questa Italia duale, le colpe non sono delle bellezze di Napoli, di chi ci ha lasciato quelle bellezze e neanche di chi le racconta ma forse delle classi dirigenti locali e nazionali di ieri e di oggi e forse pure un poco di chi umilia da troppo tempo l’orgoglio della nostra gente.
Gennaro De Crescenzo
Saviano non sopporta che si mettano in evidenza mediaticamente le bellezze artistiche, culturali e, oserei dire, umane di Napoli per il timore che nell’immaginario collettivo sostituiscano la Napoli delle gomorre da lui inventata, alimentata e venduta al mondo ormai da lustri. Lo addolora immaginare un popolo di cittadini “normali” che lavorano, passeggiano, intessono relazioni sociali di parentela, amicizia, solidarietà, amore, che affrontano la vita dandosi da fare e combattendo, come fa normalmente l’essere umano. No, a lui piace una Città degradata, un agglomerato urbano privo di un barlume di vita civile, un labirinto di strade di periferia, svuotate da ogni presenza umana che non siano i manovali della delinquenza organizzata, scorazzanti a loro piacimento giorno e notte sulle loro macchine lussuose, senza imbattersi mai, nemmeno per sbaglio, in una pattuglia di forze dell’ordine, che si è portati a pensare nemmeno esistono. Un mondo sordido, popolato di killer e psicopatici sembra l’unica umanità concepita dall’esimio scrittore e dai seguaci, sceneggiatori delle infinite serie di gomorre.
E in fondo, il suo “dolore” è comprensibile. Gli è sato consentito di seppellire un’intera cittadinanza sotto l’onta di una narrazione mistificante, apparentemente ingiustificata ma foriera per i suoi creatori verosimilmente di lauti introiti sotto forma di diritti d’autore. Come può accettare adesso che qualcuno si discosti dalla strada da lui tracciata e comodamente percorsa dal magister del pensiero unico, quel Fabio Fazio suo anfitrione d’elezione? Quello che invece stupisce, e dovrebbe indignare, è che le teste d’uovo della “napoletanità”, gli intellettuali identitari a la page e accomodati nei salotti televisivi, come pure tutta la classe politica regionale nel suo insieme, siano sempre restati muti di fronte allo scempio che si consumava a danno della loro città.