12 racconti brevi con notizie e fonti storiche (Napoli, Edizioni Mea, in tutte le librerie e online). “Io mi ricordo. Il tufo, il verde scuro dell’erba e degli alberi, remi che battono lenti l’acqua di mare, parole greche, bambini in braccio e vele al vento. Io mi ricordo. E me le sento nella pancia le grida di quella gente che scappa sotto la cenere del 1631. Sento ancora sulla pelle lo zolfo delle cannonate sparate dai ‘francesi’ nel 1799 da Castel Sant’Elmo e a porta Capuana, tra i cadaveri per strada, era gennaio e pioveva. Sento le voci dei venditori del mercato romano e la folla che corre a salutare l’imperatore là dietro, a teatro.
E il rumore delle ruote della carrozza che porta il Viceré a Palazzo e quello delle fontane col vino e con l’olio per la festa
della Madonna. E quei lamenti nelle case degli appestati, era l’estate del 1656. E sento pure il sale sulla bocca e i silenzi pieni di verde e di acqua che sbatte sulle barche greche sulla spiaggia di Megaride. Le vedo le ombre di quelle lunghe processioni di monaci, monache e gente con la luce rossa e fioca dei lumini alla finestra e profumo d’incenso tutto attorno. Quel portone di donna Maria d’Avalos uccisa, lei, la più bella, sullo scalone grande del palazzo dietro la cappella del principe che fa paura.
Sento quella sirena cupa di una nave che va in America, giù all’Immacolatella. Sento ancora il sapore della pastiera di mia nonna, l’odore per le scale e il pane caldo e le lacrime che mi rigano il volto mentre il re, l’ultimo re, sta partendo ma torna, no, non tornerà più e mi pesa, mi pesa tutto dentro e mi sento vecchio e più lento, forse più sereno più rassegnato ma non mi rassegno. E mi scopro, e mi alzo dal letto piano, esco fuori al balcone, mi affaccio e volo, volo sempre piano e lento, in alto, più in alto e il balcone, il palazzo, i balconi, i palazzi, le strade, sempre più piccoli e io più leggero e poi giù a sfiorare i capelli di quel bambino, ad accarezzare il volto di quella donna affacciata e sola, a stringere la mano di quell’uomo che se ne sta andando, a dare una spalla alla testa di quel ragazzo che non ha più voce. E poi di nuovo su, come quei gabbiani napoletani, rannicchiati in una buca di tufo del Maschio Angioino, pietre e sale, a aspettare quella luce nuova. È la mia città. È la terra mia. È la mia gente. Lasciatela stare. Lasciateci stare. Tanto lo so che poi, come un gabbiano stanco, mi alzerò e me ne andrò a riposare tra quei merli e quelle torri vecchie di tufo e piperno. A guardare i Napoletani che passano e che vivono. Tufo e piperno”.
Gennaro De Crescenzo, “Storie dalle Due Sicilie” (Napoli Edizioni Mea, in tutte le librerie e online).